google_ad_client: "ca-pub-2245490397873430", Sine.ClaV.is: Quando la politica militare italiana non era (del tutto) asservita a quella francese

sabato 6 gennaio 2018

Quando la politica militare italiana non era (del tutto) asservita a quella francese

da DifesaOnline


(di Tiziano Ciocchetti)
05/01/18 

I rapporti tra gli Alti Comandi italiano e francese, nel corso della Grande Guerra, costituirono il primo esempio di collaborazione militare tra le due nazioni dalla 2° Guerra per l’Indipendenza italiana, conclusasi con l’Armistizio di Villafranca del 12 luglio 1859.
È altresì vero che, al di là dei forti contrasti sulla condotta delle operazioni militari che lo contraddistinsero, il rapporto che si instaurò tra il Comando Supremo italiano e l’Haut Commandement transalpino fu caratterizzato sempre da chiarezza di intenti e da indubbia lealtà. Nonostante non riuscisse a costruire né quella sinergia di sforzi né quella convergenza delle strategie di guerra che molti – più a Roma che a Parigi – avevano auspicato, tuttavia la collaborazione tra le due Nazioni riuscì a realizzare il comune obiettivo della sconfitta degli Imperi Centrali.
Il 24 maggio 1915 il Regno d’Italia entrava in guerra al fianco delle potenze dell’Intesa (Gran Bretagna, Francia e Impero russo) contro l’Impero austro-ungarico.
Il Governo Salandra, nel momento in cui il conflitto scoppiava nel continente europeo e le principali Potenze si dichiaravano reciprocamente guerra, aveva scelto ufficialmente la via della neutralità (2 agosto 1914), nonostante il trattato della Triplice Alleanza – a cui il Regno d’Italia aveva aderito nel 1882 e rinnovato nel 1912 – la legava ancora formalmente ai suoi alleati austriaci e tedeschi.
Tuttavia il trattato non prevedeva l’automatica entrata in guerra di una delle Potenze firmatarie, nel caso di un attacco scatenato dalle altre e, in ogni caso, delle consultazioni preventive tra gli alleati avrebbero dovuto precedere ogni evenienza di tale genere. Nella realtà dei fatti la Germania aveva violato la neutralità belga, attaccando le regioni settentrionali della Francia; in seguito all’arresto dell’offensiva russa, nella Prussia orientale, con la battaglia di Tannenberg e dei Laghi Masuri (agosto-settembre 1914) era passata alla controffensiva in Polonia. L’Austria-Ungheria a sua volta, con molta fatica, aveva sbaragliato l’Esercito serbo costringendolo ad una frettolosa ritirata sulle coste albanesi, per poi essere salvato, nel dicembre del 1914, dalla Regia marina italiana. Né l’una né l’altra delle due Potenze si era preoccupata di avvisare per tempo l’alleato italiano delle proprie intenzioni, dimostrando ancora una volta l’abituale disprezzo per quella che era, a pieno titolo, la Potenza minore – e latina – della Triplice Alleanza.
Il Governo di Roma si ritenne dunque libero dagli impegni presi in passato e si astenne dal prendere parte al conflitto, provocando in tal modo l’acredine degli austro-tedeschi, che avrebbero in seguito accusato il Regno d’Italia di tradimento, e contemporaneamente un atteggiamento misto di speranza e sospetto da parte delle Potenze dell’Intesa.
Occorre sottolineare anche il comportamento leale che l’Italia tenne nei confronti della Francia nel corso di quei febbrili momenti, soprattutto tenendo presente le tensioni che avevano caratterizzato le relazioni italo-francesi dal 1870 al 1915, in Europa come in Nord Africa: le rivendicazioni sulle Alpi, gli attriti in Tunisia, in Etiopia e in Libia.
Non vi è alcun dubbio che sul finire del XIX secolo, il giovane Regno d’Italia si sentisse minacciato dalla politica espansionistica transalpina. L’adesione alla Triplice Alleanza era stata una precauzione proprio per premunirsi da un possibile attacco da parte francese. Infatti un conflitto con la sua vicina del lato Ovest delle Alpi era ritenuto all’inizio del XX secolo, sia dal Governo, sia dallo Stato Maggiore italiani, molto più probabile di uno con la monarchia asburgica, con la quale pur sussisteva il grave problema delle terre irredente.
Nonostante questo, il Regno d’Italia non approfittò della situazione per sferrare un attacco a sorpresa contro Parigi e si mantenne rispettoso degli accordi siglati con il Governo francese a partire dal 1902 (accordi Prinetti-Barrère), secondo i quali i due Paesi si impegnavano reciprocamente a non partecipare ad una guerra d’aggressione diretta contro l’altro.
Appare quindi evidente che, un diverso comportamento da parte italiana avrebbe potuto avere delle conseguenze disastrose per Parigi, impedendo all’esercito francese, nell’estate del 1914, di concentrare tutte le sue forze nella decisiva battaglia di arresto sul fiume Marna.
In seguito a valutazioni di ordine politico, strategico e militare conseguenti all’andamento del conflitto, ma anche le simpatie per la democrazia francese nonché la reazione dell’opinione pubblica italiana all’aggressione tedesca del Belgio, indussero il Governo di Roma ad unirsi all’Intesa.
Da parte francese, l’ingresso in guerra del regno d’Italia aveva alimentato non poche speranze di una soluzione rapida del conflitto. Infatti l’Alto Comando transalpino, mentre cercava inutilmente di sfondare sul fronte occidentale – offensiva di Joffre nell’Artois nel maggio del 1915 e nella Champagne nel settembre successivo – riteneva possibile una grande offensiva congiunta degli eserciti italiano e serbo su Trieste, e successivamente su Budapest e Vienna, in concomitanza con una risolutiva avanzata russa nella regione dei Carpazi e delle Alpi Orientali.
Era una visione strategica, tuttavia, che non si basava su un esame sufficientemente approfondito della situazione del fronte italiano. Abituato alle operazioni condotte sulle ampie pianure della Francia settentrionale, dove ben presto tuttavia, dopo un’iniziale fase di movimento, il fuoco di sbarramento delle artiglierie di grosso calibro, gli ostacoli artificiali e la sostanziale equivalenza in numero degli eserciti contrapposti, avevano trasformato la manovra in guerra di posizione, l’Alto Comando francese non aveva ben considerato le difficoltà rappresentate dal terreno sul quale le Armate italiane avrebbero dovuto condurre i loro attacchi, ovvero l’arco alpino, la regione degli Altipiani ed il Carso. Tutti luoghi caratterizzati da una orografia complessa, con le alture dominanti occupate dalle truppe austro-ungariche, che in precedenza avevano avuto il tempo per rinforzarle con la costruzione di trincee e fortificazioni campali. Inoltre l’andamento della linea del fronte, a forma di arco e con la concavità occupata dalle forze italiane, la rendeva particolarmente vulnerabile ad una controffensiva austriaca dal Trentino che, irrompendo nella zona tra Vicenza e Padova, avrebbe rischiato di accerchiare le truppe attestate sull’Isonzo.
L’immobilizzazione del fronte italiano, dopo l’estate del 1915, nonché il fallimento dell’offensiva russa in Galizia, cui si aggiunse il crollo della Serbia in autunno, contribuirono a modificare l’ottimismo iniziale, convincendo ben presto l’Alto Comando francese che nessun risultato veramente decisivo sarebbe stato ottenuto sul teatro di operazioni italiano. Anche i periodici rapporti degli osservatori militari inviati sul fronte italiano, sostanzialmente negativi per ciò che concerneva organizzazione, equipaggiamenti e morale delle truppe, accrebbero la sfiducia dello Stato Maggiore francese nei confronti di quello italiano in merito alla possibilità di pianificare offensive efficaci. Tutto ciò alimentato dalla persistente prevenzione transalpina verso tutto quanto ha il difetto di provenire dal versante italico delle Alpi.
Nel giugno del 1916, nonostante l’offensiva austro-ungarica sugli Altipiani – la Strafexpedition (Spedizione Punitiva) – fosse stata brillantemente arrestata, sin dalle prime fasi, dalle truppe italiane, che in seguito avrebbero obbligato il nemico a ritirarsi fino alle sue posizioni di partenza, Joffre restava ancorato alla sua convinzione che quello italiano non fosse che un fronte secondario e che dunque non valesse la pena di inviare armate francesi per rinforzarlo. Neanche la ripresa dell’offensiva italiana nel mese di agosto, che avrebbe consentito l’occupazione della città di Gorizia (VI Battaglia dell’Isonzo) , servì a far cambiare idea l’Alto Comando francese, propenso unicamente a sostenere l’alleato russo e, in minor misura, quello rumeno.
L’Esercito zarista, che l’anno successivo sarebbe miseramente crollato, riceveva nel 1916 la fornitura di 897 apparecchi da parte della Francia. Quelli invece promessi all’Italia, che non sarebbe mai venuta meno ai suoi impegni, non furono che 60, e tutti forniti con il contagocce. Non ebbero miglior fortuna gli aiuti inviati alla Romania, dato che questa, neanche quattro mesi dopo la sua entrata in guerra a fianco dell’Intesa (27 agosto 1916), veniva sconfitta dalla fulminea avanzata tedesca e, occupata nella quasi interezza del suo territorio, costretta alla resa nel marzo successivo. Anche la fornitura di grossi calibri all’artiglieria italiana, nonostante le evidenti carenze, non fu che simbolica nel 1915, malgrado le reiterate richieste inoltrate a Parigi dal generale Luigi Cadorna. Ancora l’anno seguente, l’invio sul fronte italiano di 60 cannoni campali da 120/25 fu caratterizzato da lunghe polemiche tra il Governo di Parigi e il generale Joffre, il quale si oppose categoricamente a che essi fossero spostati dal parco artiglieria del suo fronte.
La cooperazione non aveva incontrato meno difficoltà in campo navale. Alla fine del 1916, allorché la minaccia di una invasione tedesca della Francia attraverso la Svizzera apparve più reale che non in passato, la possibilità della costituzione di un fronte continuo dalla Manica all’Adriatico venne presa in considerazione sia da Joffre che da Petain e Foch, autore quest’ultimo del piano per far fronte al pericolo (piano H). Conseguentemente, la considerazione dell’Alto Comando francese circa il fronte italiano si modificò leggermente. La prospettiva di inviare in Italia 2-4 divisioni – sufficienti, secondo l’opinione diffusa negli ambienti militari transalpini, per ridare fiducia agli italiani – venne preso in considerazione da Nivelle, subentrato il 12 dicembre 1916 a Joffre in qualità di comandante in capo delle Armate del Nord e Nord-Est. Il progetto, tuttavia, venne velocemente scartato.
Alla conferenza interalleata di Roma del 6 gennaio 1917 e a quella di Londra di dieci giorni dopo, Nivelle si oppose fermamente alla proposta di Lloyd George di pianificare una grande offensiva alleata sull’Isonzo. È probabile che, dietro il rifiuto francese, si celasse la volontà di dare assoluta priorità alla prossima offensiva in preparazione sul fronte occidentale, nella regione dello Chemin des Dames (9-19 aprile 1917) che, sempre negli intendimenti di Nivelle, avrebbe dovuto infliggere una sconfitta decisiva alle forze tedesche. Essa si sarebbe risolta invece in un fiasco colossale, uno dei più clamorosi fallimenti dell’intero conflitto per francesi e britannici, che comportò, fra gli altri, l’allontanamento definitivo del comandante in capo transalpino.
Malgrado ciò, l’interesse francese nei confronti del fronte italiano continuò a restare tiepido ed un cambio di strategia nella condotta della guerra, con conseguente spostamento dello sforzo bellico dal fronte occidentale a quello meridionale, non venne quasi mai presa in considerazione dagli strateghi transalpini. L’idea che si potesse invadere il territorio germanico passando per Vienna, concentrando quindi gli attacchi nei confronti del più debole dei due Imperi Centrali, rimase sempre estranea alla mentalità militare d’oltralpe, totalmente focalizzata sul confronto diretto con la Germania a Nord e a Est; secondo piani, nell’ottica della rivincita, erano stati concepiti e più volte rielaborati allo scopo di riprendere quello che era stato perduto con la bruciante sconfitta del 1870: l’Alsazia e la Lorena.
Il 15 maggio 1917, a seguito del siluramento di Nivelle, il generale Philippe Pétain diveniva il comandante in capo delle Armate francesi del Nord e del Nord-Est, in pratica dell’intero Esercito francese.
Pétain, che fu uno dei migliori comandanti della Grande Guerra, fu uno dei pochi a non guardare alle vicende del fronte italiano con disinteresse tipico dei suoi predecessori. Nonostante fosse convinto dell’impreparazione dell’Esercito italiano all’atto dell’entrata in guerra, egli ebbe spesso parole di sincera ammirazione per l’eroismo e lo spirito di sacrificio dimostrato dalle truppe italiane durante tutto lo svolgimento del conflitto e riconobbe più volte l’importanza dell’apporto bellico italiano allo sforzo comune dell’Intesa.
Anche la visione strategica delle operazioni da condurre nel conflitto in corso risultava decisamente più ampia in Pétain che negli altri capi militari francesi dell’epoca. Convinto del suo disegno strategico di spostare l’asse della guerra dalla Champagne e dalle Fiandre, dove si era svolta sino a questo momento, all’Alsazia del Nord, in previsione di raggiungere obiettivi posti nelle regioni del Reno e del Danubio, Pétain aveva pianificato quattro possibili battaglie per la coalizione dell’Intesa: una di rottura, francese, in alta Alsazia; una franco-americana in Lorena; una franco-britannica in Piccardia e una franco-italiana nell’Italia del Nord. Nella sua visione della guerra, quindi, il fronte italiano era strettamente legato alle operazioni che si sarebbero effettuate sul fronte Nord-Est.
Il 25 giugno successivo si svolse a Jean-de-Maurienne un incontro bilaterale tra Foch e Cadorna. Quest’ultimo lamentava le già note carenze del suo esercito in merito all’artiglieria – l’Esercito italiano necessitava di almeno 180 batterie  una carenza di cui gli austriaci avrebbero potuto trarre vantaggio. Le richieste del capo di Stato Maggiore italiano caddero nuovamente nel vuoto, in compenso Foch si profuse in molte esortazioni a proseguire negli sforzi offensivi, ritenendo ormai l’Impero austro-ungarico allo stremo delle forze. Inoltre, tre giorni più tardi, in un colloquio con il generale Robertson, capo di Stato Maggiore dell’Esercito britannico, Foch ancora una volta esprimeva l’inutilità di inviare truppe francesi sul fronte italiano.
Il Comando Supremo italiano dovette pertanto contare ancora una volta soltanto sulle proprie forze, a partire dal 10 agosto 1917 lanciò l’ennesima offensiva contro le linee austriache (XI battaglia dell’Isonzo). L’attacco riuscì a romperle in diversi punti sull’Altipiano della Bainsizza, obbligando le forze nemiche a ritirarsi di qualche decina di chilometri, ma non a ottenere una vittoria decisiva.
Da parte italiana, invece, veniva accettata la richiesta francese di inviare un primo contingente di 5.000 lavoratori militarizzati (TAIF, Truppe Ausiliare Italiane in Francia) dall’altro lato delle Alpi, per essere impiegati nell’industria degli armamenti francese, nella costruzione di ferrovie e nell’allestimento di una terza posizione difensiva in Lorena. Un aspetto poco conosciuto dalla storiografia ufficiale, specialmente da quella transalpina, ma che si rivelò determinante – alla fine del conflitto i lavoratori italiani in Francia saranno 136.000 – per la vittoria delle Potenze dell’Intesa sul fronte occidentale.
Il punto di svolta si ha il 24 ottobre 1917, quando gli austro-ungarici, con l’apporto di 7 divisioni tedesche, effettuano un massiccio attacco tra il Tolmino e il Plezzo, nella regione di Caporetto (XII battaglia dell’Isonzo).
Fu soltanto allora, nel timore che le truppe austro-tedesche potessero dilagare nella Pianura Padana e arrivare fino a Milano, se non addirittura a Genova, che francesi e britannici decisero un intervento diretto sul fronte italiano. Il loro corpo di spedizione, costituito di 11 divisioni, di cui 6 francesi e 5 britanniche, venne schierato nella Pianura Padana tra il 31 ottobre e la fine di novembre, tuttavia ebbe modo di condurre alcuna azione veramente decisiva, da momento che già il 6 novembre l’Esercito italiano era riuscito, da solo, ad arrestare definitivamente l’avanzata del nemico sul Piave e sul Grappa.
Senza dover tornare sulle interminabili controversie che nacquero alla fine del conflitto circa l’attribuzione di questa vittoria, che francesi e inglesi non esitarono ad attribuire alla loro presenza in Italia, sarà sufficiente riportare la serena ammissione del Maresciallo Pétain, nel discorso di ingresso in occasione della sua ammissione fra gli Immortalidell’Accademia di Francia il 23 gennaio 1931: il nemico era già stato fermato sulle rive del Piave, prima che fosse necessario impegnare le nostre divisioni.
Ad accrescere ulteriormente la tensione contribuì, il 5 novembre, la richiesta italiana, formulata dal generale Porro, che il Corpo di spedizione francese in Italia fosse agli ordini del Comando Supremo, il quale lo avrebbe impiegato nei modi e tempi che riteneva più opportuni. Richiesta che ovviamente, sia Foche che Pétain, si trovarono concordi a non prenderla neppure in considerazione.
Alla Conferenza interalleata di Rapallo, dal 5 al 7 novembre 1917, i primi ministri Lloyd George e Painlevé pretesero la testa di Cadorna in cambio di aiuti all’Esercito italiano. La loro visione politica era pienamente appoggiata dai loro capi militari, i quali, nei loro rapporti sulla situazione sul fronte italiano, avevano parlato di un vero e proprio panico che, a loro dire, dopo lo sfondamento austro-tedesco, avrebbe coinvolto anche il Comando Supremo. Si trattava in realtà di un giudizio ingiusto e manifestamente falso. Cadorna aveva commesso, durante la sua azione di comando, gli stessi errori che avevano provocato, nel 1915 e nel 1916, i siluramenti definitivi di Joffre e Nivelle. Soprattutto l’ostinarsi in offensive dispendiose in uomini e mezzi, ma poco remunerative sul piano tattico, che a lunga andare avevano spossato l’Esercito e fatto crollare il morale dei combattenti.
Tuttavia, seppur con tutte le ombre del suo operato, Cadorna seppe mantenersi sempre molto lucido ed attivo, anche durante le drammatiche ore della ritirata ed è altresì innegabile che va attribuito al suo operato quale capo di Stato Maggiore la pianificazione della vittoriosa resistenza sulla linea del Piave, che avrebbe bloccato definitivamente l’avanzata nemica e gettato le premesse per la vittoria finale.
In ogni caso dovevano essere preservati i rapporti con le altre Potenze dell’Intesa ed il Re e il Governo italiano accettarono di sostituirlo con il generale Armando Diaz.
Quella del futuro Duca della Vittoria fu però una scelta che, se si rivelò estremamente positiva per l’Esercito italiano, si dimostrò altresì controproducente per gli Alleati. Diaz infatti, contrariamente a Cadorna, si mostrò sempre poco propenso ad accettare le richieste degli altri capi militari dell’Intesa e a subordinare la sua azione di comando agli interessi globali delle altre Potenze.
Passata la crisi di Caporetto, l’interesse di Parigi per il fronte italiano cominciò rapidamente a diminuire. Da qui la preoccupazione dell’Alto Comando transalpino di richiamare il più presto possibile le truppe francesi che ancora vi trovavano – almeno le due Divisioni del XII Corpo d’Armata – che venne richiesta con insistenza da Pétain a Clemenceau a partire dal 14 gennaio 1918, non appena fu chiaro che le capacità offensive austro-tedesche, sulla linea del Piave, erano stato frustrate. Tuttavia il primo ministro francese si opponeva a tale richiesta, temendo per ritorsione l’interruzione del flusso di lavoratori militarizzati verso la Francia, quindi questo ritiro non ebbe inizio che a partire dal 24 marzo 1918, di fronte all’emergenza scaturita dalla nuova offensiva tedesca sul fronte occidentale nella regione di San Quintino e al conseguente sfondamento del settore tenuto dai britannici. Le sole forze francesi a restare in Italia fino alla fine della guerra furono dunque la XXIII e la XXIV Divisione di fanteria.
A partire dal 15 aprile 1918, inoltre, allo scopo di equilibrare l’aiuto francese all’Italia, il Comando Supremo acconsentì di inviare il II Corpo d’Armata comandato dal generale Albricci, formato da due Divisioni più reparti di supporto, a combattere sul fronte occidentale, nella Champagne.
La Grande Unità avrebbe partecipato, fra le altre, alla grande battaglia difensiva del 15 luglio 1918 ( II battaglia della Marna ), che bloccò definitivamente le residue speranze tedesche di risolvere rapidamente la guerra e avrebbe preso parte all’offensiva alleata del settembre successivo contro il saliente di Laon. L’Armistizio dell’11 novembre colse le truppe italiane in piena avanzata, ad oltre 90 km dalle loro linee di partenza, davanti alla storica città di Rocroi, sulla Mosa, che venne liberata dal 19° Reggimento di fanteria della Brigata Brescia.
Il 28 marzo 1918 Foch, in seguito alla Conferenza interalleata di Doullens, fu nominato comandante supremo delle forze alleate. In seguito a questo evento, i rapporti fra il Comando supremo italiano e il Quartier Generale Interalleato divennero preminenti rispetto a quelli con l’Alto Comando francese.
È interessante notare che, l’aspetto più rilevante di questo periodo della guerra, fu l’insistenza manifestata da Foch affinché Diaz riprendesse rapidamente l’offensiva sul Piave. Tuttavia l’opposizione del capo di Stato Maggiore italiano a questa sollecitazione, ritenuta a suo avviso prematura, traeva origine da un esame molto accurato sia della situazione militare delle forze italiane che di quella degli austro-ungarici. Infatti, in seguito allo sfondamento di Caporetto, le forze italiane si erano ridotte da 61 a 37 divisioni, inoltre era andato perduto un ingente quantitativo di pezzi di artiglieria.
Questa situazione necessitava di tempo per essere sanata, era indispensabile rimpiazzare le perdite di materiale nonché provvedere sia all’incorporazione che all’addestramento delle nuove classi chiamate alle armi, fra le quali quella del 1899. Inoltre Diaz si rendeva perfettamente conto che il tempo giocava a suo favore, a causa del lento ma inesorabile declino politico-militare dell’Impero austro-ungarico, il quale non poteva non avere un effetto devastante sulla capacità operativa del suo Esercito. Questo aveva subito una serie di pesanti sconfitte sul Piave, sul Grappa e sul Montello, nel giugno del 1918, a causa della resistenza accanita – quasi disperata – esercitata ovunque dai soldati italiani (battaglia del Solstizio) e cominciava a dare evidenti segni di disgregazione a seguito delle sempre più forti velleità autonomistiche delle minoranze oppresse.
È altresì curioso sottolineare come, nonostante gli addetti militari francesi distaccati a Padova presso il Comando Supremo comunicassero che l’Esercito italiano non fosse ancora pronto per lanciare un’offensiva su vasta scala, Foch (nella foto, a dx) restava fermo nella sua richiesta di un attacco immediato sul Piave.
Tuttavia, quando Diaz gli chiese nell’estate del 1918 il sostegno di una decina di divisione alleate con il quale costituire la riserva necessaria per l’offensiva tanto richiesta, egli espresse ancora una volta un rifiuto. Che venne rinnovato allor quando, poco tempo dopo, il Comando Supremo chiese che fosse esteso anche al fronte italiano l’invio di truppe statunitense in afflusso in Europa. La risposta fu un reggimento di fanteria e alcune ambulanze: ecco la totalità del sostegno americano che venne inviato in Italia.
Non bisogna quindi sorprendersi se Diaz, sostenuto dal presidente del consiglio Vittorio Emanuele Orlando (secondo da sx nella foto d'apertura), si dimostrò sempre assai refrattario a sottomettersi alle direttive del Comitato Interalleato di Guerra, rivendicando quell’autonomia di condotta delle operazioni sul fronte italiano che i francesi, dopo tanto disinteresse nei suoi confronti, non sembravano ora più disposti ad accettare. D’altronde, l’influenza di Foch, che il 7 agosto 1918 aveva ricevuto il bastone di Maresciallo, formalmente non si estendeva al fronte italiano.
Quindi, quando Diaz scatenò l’offensiva finale di Vittorio Veneto, il 24 ottobre 1918, che avrebbe sbaragliato le truppe nemiche e portato alla vittoria, le forze di cui poté disporre erano ancora inferiori a quelle dell’Esercito austro-ungarico: 57 divisioni, di cui 51 italiane, 3 britanniche, 2 francesi e una cecoslovacca contro 60 messe in campo dal nemico.
La portata di questa battaglia – la sola spettacolarmente decisiva di una guerra di quattro anni, secondo il parere dello storico transalpino Henry Contamine – fu ingiustamente sottovalutata sia da Foch che dagli altri Capi militari francesi, convinti dai rapporti inviati da Padova del generale Julian che asserivano che le armate austro-ungariche si fossero ritirate senza porre alcuna resistenza. Questo non spiega, tuttavia, le pesanti perdite subite dall’Esercito italiano durante gli ultimi mesi della guerra (36.498 tra morti e feriti), causate da una resistenza nemica che fu, come sempre, accanita e determinata.
Dopo la resa incondizionata dell’Impero asburgico (4 novembre 1918), con le truppe italiane lanciate in direzione di Innsbruck, fu probabilmente la minaccia di un’offensiva italiana condotta da sud, attraverso il Tirolo e la Baviera, la cui pianificazione era in corso presso il Comando Supremo, che obbligò la Germania ad abbandonare una lotta che altrimenti avrebbe potuto condurre con successo almeno sino alla primavera del 1919. Le conseguenze sarebbero state negative soprattutto per la Francia, con ancora una vasta parte del suo territorio occupato e sistematicamente devastato dal nemico.
È altresì vero che, senza la battaglia di Vittorio Veneto e il conseguente armistizio italo-austriaco del 4 novembre, con cessione all’Italia di tutte le ferrovie austriache intatte e quindi con la possibilità reale di un attacco al territorio tedesco attraverso il Tirolo, Berlino non avrebbe, già il 5 novembre, diramato il precipitoso ordine di ritirata che sei giorni dopo avrebbe portato alla capitolazione della Germania.
Si evince da quanto scritto fino adesso che, nel corso della Grande Guerra, i piani strategici italiani e francesi non si incontrarono che occasionalmente. Soprattutto perché il fronte italiano venne sempre considerato dall’Alto Comando transalpino come secondario, il cui unico interesse consisteva nel fatto che non crollasse. Anche la scarsa considerazione nella quale i Capi militari francesi tenevano quelli italiani non contribuì certo a facilitare l’integrazione di questo fronte, che conobbe un interesse temporaneo soltanto durante la crisi generata dallo sfondamento di Caporetto.
Inoltre il conflitto di competenza che causò forti contrasti, tra Foch e Pétain, per il comando del Corpo di spedizione francese in Italia aggravò la situazione, facendo aumentare i sospetti e i malcontenti degli italiani.
Il generale Diaz, divenuto nel novembre 1917 il nuovo capo di Stato Maggiore dell’Esercito italiano, fu capace di trarre profitto da questa situazione. Egli condusse la guerra con un’autonomia d’azione che rese del tutto formale la sua subordinazione al capo supremo Interalleato, il Maresciallo Foch, e fece dell’Esercito italiano il meno integrato nel sistema di comando dell’Intesa.
(foto: web)

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