google_ad_client: "ca-pub-2245490397873430", Sine.ClaV.is: COSA PONE VERAMENTE IN PERICOLO L’EUROZONA. IL CONTO CHE LA GERMANIA NON PAGHERA’ MAI

venerdì 25 maggio 2018

COSA PONE VERAMENTE IN PERICOLO L’EUROZONA. IL CONTO CHE LA GERMANIA NON PAGHERA’ MAI

da Controinformazione


Un’impressionante ondata di livore. Evidentemente a Roma non si sta facendo abbastanza per compiacerli e temono che l’Italia non sia la Grecia.

1. Quello che dovrebbe farci riflettere, ben al di là del brain (?) storming internazionale (!) sul nome del possibile presidente del consiglio, è l’evoluzione dello scenario all’interno dell’unione monetaria.
 
In pratica, il nostro problema cognitivo (e per nostro intendo il punto di vista riflesso dai media italiani) è che non si riconosce un dato storico fondamentale: l’Italia, nonostante le tattiche dichiarazioni di vari personaggi impegnati a difendere uno status quo ormai traballante (peraltro legittimamente: ma solo se si ammette, senza ipocrisia, che sia legittimo perseguire il rispettivo interesse nazionale), non è e non è mai stata una minaccia per la moneta unica.


 

2. Al contrario, avendo accettato, quali che ne siano le ragioni,- certamente non costituzionalmente giustificabili (come preannunziava Basso, qui: p.7, e come ammetteva Carli negli anni ’70; qui p.7), una profonda ristrutturazione peggiorativa del proprio status politico, industriale e di benessere diffuso, l’ostinazione italiana a voler aderire e permanere nella moneta unica è il più forte collante che salda gli interessi francesi e tedeschi, altrimenti divergenti; e divergenti (ancor più) proprio a causa della moneta unica, creando una comune convenienza a tenere un paese, l’Italia, in una situazione che li avvantaggia a nostro danno.
Ne discende che, proprio perché l’Italia (id est: le sue classi dirigenti) si è dimostrata insensibile a tale esorbitante costo socio-politico, e capace di mantenersi in rotta con l’aggiustamento strutturale imposto dalla moneta unica, fino al punto di sistemare sia uno stabile attivo delle proprie partite correnti che il miglioramento di una posizione netta sull’estero più “sana” di quella di molti altri paesi dell’eurozona (ovviamente eccettuate Germania ed Olanda), che la reciproca convenienza franco-tedesca, in danno dell’interesse italiano, inizi a vacillare.

3. Si spiega così perché oggi Dombrovskys, vice-presidente della Commissione Ue, e persino il ministro degli esteri lussemburghese Jean Asselborn, si affrettino a porre caveat preventivi sulla formazione di un governo italiano che, pure, riflette la maggioranza emersa da un democratico processo elettorale; rispetto al quale, in base a qualsiasi norma dei trattati si voglia considerare, non sono legittimati ad un’interferenza politica preventiva e, peraltro, inedita…salvo il caso della Grecia del “primo” Tsipras.
Ma la differenza tra la situazione della Grecia della primavera del 2015 e quella italiana attuale è troppo evidente per non rendere sospetto questo profluvio di interferenze sulla nostra democrazia interna, e non far ritenere che la verità sta proprio nel fatto che l’Italia “allarma” non per la sua debolezza ma per la sua (potenziale) forza, la cui rivendicazione farebbe crollare la grande costruzione oligarchica del capitalismo finanziario che culmina nell’euro.
Basti dire che l’Italia non solo è in attivo ormai stabile delle partite correnti, non solo vanta un notevole miglioramento della PNE, ma è contribuente netto nel bilancio dell’intera Ue, nonché pesante contributore dei fondi di salvataggio (ESM e suoi antecedenti), le cui erogazioni sono andate a vantaggio di altri.


4. Piuttosto, una volta abbracciata questa chiave di lettura si può meglio decodificare il “messaggio” lanciato da un recente (ed ennesimo) “appello” di 154 economisti tedeschi: vederlo semplicemente come l’ennesima reprimenda (indiretta) contro l’Italia sprecona e irriconoscente, (nel modo in cui comunque si sono espressi Gros, Fuest, Sinn & co; qui, p.3), risulterebbe miope o, più esattamente, molto fuorviante.

L’appello è un vero e proprio cannoneggiamento preventivo non diretto all’Italia, ma alle riforme dell’eurozona che vorrebbero proporre Macron, in prima battuta, e Juncker (nei limiti di un ruolo che si avvia al suo termine e in vista di problematiche risultanze delle prossime elezioni europee).
Basta vedere come il medesimo appello sia percepito da una fonte USA notoriamente vicina ai repubblicani; il titolo del commento di Politico è già “tutto un programma”:

SURPRISE! 154 GERMAN ECONOMISTS AGAINST EUROZONE REFORM Per gli economisti tedeschi, non certo dei provocatori-disturbatori, un’unione di “condivisione dei rischi” è da evitare. Le idee di riforma di Juncker e Macron sono pericolose perché finirebbero per “socializzare” quelli che gli economisti prevedono che saranno i futuri errori di gestione dell’eurozona da parte dei non-German.

5. Rammentiamo che questa ansia tedesca rispetto all’eurozona, e proprio in quanto scientemente congegnata in termini antisolidaristici nei trattati, e quindi destinata a portare un conto “politico” crescente al paese che tale antisolidarismo ha imposto e sfruttato, non è nuova: avevamo già visto che sullo Spiegel, con più moderazione (da interpretare, peraltro), si era riportata “l’idea…di far valere il tetto del 3% di deficit per l’insieme della zona euro, affinché diventi meno importante il suo rispetto da parte dei singoli Stati.
Perché – è il ragionamento dello Spiegel – quelli in pareggio, o in surplus, compenserebbero i deficit elevati.
Far rispettare la regola del 3% solo all’intera Eurozona, scrive lo Spiegel, “avrebbe dei vantaggi per i Governi che non vogliono risparmiare”, cioè che non vogliono tagliare la spesa pubblica. Perché “più alcuni Paesi portano i bilanci in pareggio o accumulano surplus, più altri possono avere deficit alti”, visto che il 3% non va superato nell’insieme.”


6. Rinviamo al post linkato per gli aspetti relativi a come questo escamotage potesse evitare alla Germania qualsiasi aggiustamento reflattivo e, in pratica, re-indurre in indebitamento da (modesta) espansione i paesi “debitori” dell’eurozona. Da calcolare, tra l’altro, che dato il suo peso ponderale nell’economia dell’eurozona, l’Italia sarebbe risultata tra i paesi avvantaggiati, poiché i suoi attuali percorsi verso l’obiettivo di pareggio strutturale di bilancio l’hanno portata, per prima e con un vantaggio di un numero considerevole di anni, a rispettare il 3% e anche a registrare un dato inferiore. A differenza di Francia e Spagna.

Ma il vero nodo della questione è sempre identico a quello che ora, senza mezzi termini, sollevano i 154 economisti tedeschi: la Germania non ha alcuna intenzione di mutare le proprie politiche di competizione mercantilista all’interno dell’eurozona, e dell’intera Ue, e non ha alcuna intenzione di condurre politiche fiscali espansive e reflattive.
Eppure, secondo la stessa Commissione, persino in applicazione del fiscal compact, i cui parametri rispetto infatti con “eccesso” (di zelo), la Germania dovrebbe intraprendere un aggiustamento fiscale che la porti a un deficit di bilancio aggiuntivo di 0,8 punti di PIL (v. qui tabella al p.2)

                   Tabella raffronto paesi
 
7. La sintesi che se ne poteva ricavare – e che viene confermata dall’uscita dei 154 economisti- è che le riforme di Macron, per quanto riguarda l’interesse tedesco (che gli stessi privilegiano sopra ogni altra considerazione), sono fuori questione; cioè sono esse stesse a porre in pericolo l’eurozona, non certamente gli sviluppi della situazione politica italiana.
Beninteso: il presunto solidarismo dell’impostazione macroniana non ha nulla a che vedere con “l’unione di trasferimenti” che dovrebbe completare la moneta unica già nelle pallide intenzioni del rapporto Werner; si tratta, come abbiamo più volte visto, di un mero meccanismo assicurativo (qui, p.4), in cui non solo si paga un premio esoso e fiscalmente insopportabile, ma in cui le prestazioni dell’€uropa-assicuratrice sono soggette alla pesante “franchigia” di condizionalità che segnerebbero il dominio politico del paese, o dei paesi, che avessero il controllo delle rafforzate istituzioni dell’eurozona. Cioè cessione integrale e definitiva di sovranità in cambio di cieca obbedienza agli interessi stimati dai paesi dominanti.

8. Solo che, poiché alla Germania le cose vanno bene così come stanno, nella sostanziale impunità del suo supersurplus estero di 8,5 punti di PIL e con un saldo di bilancio pubblico ormai in attivo, anche questa prospettiva di condivisione del potere, sostanzialmente coi francesi, non li alletta e la vedono come un’intrusione intollerabile.
Al punto da lasciar appunto intendere che potrebbero lasciare l’eurozona, accettando che gli altri mantengano l’euro con regole fiscali meno asfissianti in modo da poter contare ancora sulla domanda dei paesi dell’eurozona, pur reimpossessandosi del proprio marco alquanto rivalutato (v. qui, pp.6-8).

9. Ed allora, oggi più che mai il richiamo alla insostituibilità della moneta unica e a far coincidere (paradossalmente dal punto di vista storico ed economico) un qualche “interesse nazionale” con il suo mantenimento ad ogni costo (qui, p.4), rischia di diventare una valutazione imprudente e viziata da una rigidità di linea politico-economica priva di un realistico “timing”.

Se proprio si volesse considerare razionalmente la situazione politica che si sta profilando nell’eurozona, senza farsi obnubilare dai condizionamenti autodenigratori e dai sensi di colpa (infondati), le nostre istituzioni dovrebbero essere molto, ma molto, più attente all’effettivo intreccio e contrasto di interessi che (come previsto) avrebbe indotto la moneta unica; una situazione da considerare senza provincialismo ed in cui non c’è solo in gioco la nostra credibilità in forma di pacifismo scollato dalla coscienza informata delle scelte che si subiscono.
E, sempre prudentemente e saggiamente, sarebbe da considerare l’idea di un Piano B.


La Germania il conto non lo vuole pagare: lo si sappia perché è un suo comportamento abituale.

Fonte: Orizzonte48

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