Un’impressionante ondata di livore. Evidentemente a Roma non si sta facendo abbastanza per compiacerli e temono che l’Italia non sia la Grecia.
1. Quello che dovrebbe farci riflettere, ben al di là del
brain (?) storming internazionale (!) sul nome del possibile presidente
del consiglio, è l’evoluzione dello scenario all’interno dell’unione
monetaria.
In pratica, il nostro problema cognitivo (e per nostro intendo il punto
di vista riflesso dai media italiani) è che non si riconosce un dato
storico fondamentale: l’Italia, nonostante le tattiche dichiarazioni di
vari personaggi impegnati a difendere uno status quo ormai traballante
(peraltro legittimamente: ma solo se si ammette, senza ipocrisia, che
sia legittimo perseguire il rispettivo interesse nazionale), non è e non
è mai stata una minaccia per la moneta unica.
2. Al contrario, avendo accettato, quali che ne siano le ragioni,-
certamente non costituzionalmente giustificabili (come preannunziava
Basso, qui: p.7, e come ammetteva Carli negli anni ’70; qui p.7),
una profonda ristrutturazione peggiorativa del proprio status politico,
industriale e di benessere diffuso, l’ostinazione italiana a voler
aderire e permanere nella moneta unica è il più forte collante
che salda gli interessi francesi e tedeschi, altrimenti divergenti; e
divergenti (ancor più) proprio a causa della moneta unica, creando una
comune convenienza a tenere un paese, l’Italia, in una situazione che li
avvantaggia a nostro danno. Ne discende che, proprio perché l’Italia (id est: le sue classi
dirigenti) si è dimostrata insensibile a tale esorbitante costo
socio-politico, e capace di mantenersi in rotta con l’aggiustamento
strutturale imposto dalla moneta unica, fino al punto di sistemare sia
uno stabile attivo delle proprie partite correnti che il miglioramento
di una posizione netta sull’estero più “sana” di quella di molti altri
paesi dell’eurozona (ovviamente eccettuate Germania ed Olanda), che la
reciproca convenienza franco-tedesca, in danno dell’interesse italiano,
inizi a vacillare.
3. Si spiega così perché oggi Dombrovskys, vice-presidente
della Commissione Ue, e persino il ministro degli esteri lussemburghese
Jean Asselborn, si affrettino a porre caveat preventivi sulla
formazione di un governo italiano che, pure, riflette la maggioranza
emersa da un democratico processo elettorale; rispetto al quale, in base
a qualsiasi norma dei trattati si voglia considerare, non sono
legittimati ad un’interferenza politica preventiva e, peraltro,
inedita…salvo il caso della Grecia del “primo” Tsipras. Ma la differenza tra la situazione della Grecia della primavera del
2015 e quella italiana attuale è troppo evidente per non rendere
sospetto questo profluvio di interferenze sulla nostra democrazia
interna, e non far ritenere che la verità sta proprio nel fatto che
l’Italia “allarma” non per la sua debolezza ma per la sua (potenziale)
forza, la cui rivendicazione farebbe crollare la grande costruzione
oligarchica del capitalismo finanziario che culmina nell’euro.
Basti dire che l’Italia non solo è in attivo ormai stabile delle partite
correnti, non solo vanta un notevole miglioramento della PNE, ma è
contribuente netto nel bilancio dell’intera Ue, nonché pesante
contributore dei fondi di salvataggio (ESM e suoi antecedenti), le cui
erogazioni sono andate a vantaggio di altri.
4. Piuttosto, una volta abbracciata questa chiave di lettura
si può meglio decodificare il “messaggio” lanciato da un recente (ed
ennesimo) “appello” di 154 economisti tedeschi: vederlo semplicemente
come l’ennesima reprimenda (indiretta) contro l’Italia sprecona e
irriconoscente, (nel modo in cui comunque si sono espressi Gros, Fuest,
Sinn & co; qui, p.3), risulterebbe miope o, più esattamente, molto
fuorviante.
L’appello è un vero e proprio cannoneggiamento preventivo non
diretto all’Italia, ma alle riforme dell’eurozona che vorrebbero
proporre Macron, in prima battuta, e Juncker (nei limiti di un
ruolo che si avvia al suo termine e in vista di problematiche risultanze
delle prossime elezioni europee).
Basta vedere come il medesimo appello sia percepito da una fonte USA
notoriamente vicina ai repubblicani; il titolo del commento di Politico è
già “tutto un programma”: SURPRISE! 154 GERMAN ECONOMISTS AGAINST EUROZONE REFORM
Per gli economisti tedeschi, non certo dei provocatori-disturbatori,
un’unione di “condivisione dei rischi” è da evitare. Le idee di riforma
di Juncker e Macron sono pericolose perché finirebbero per
“socializzare” quelli che gli economisti prevedono che saranno i futuri
errori di gestione dell’eurozona da parte dei non-German.
5. Rammentiamo che questa ansia tedesca rispetto all’eurozona, e proprio in quanto scientemente congegnata in termini antisolidaristici nei trattati,
e quindi destinata a portare un conto “politico” crescente al paese che
tale antisolidarismo ha imposto e sfruttato, non è nuova: avevamo già
visto che sullo Spiegel, con più moderazione (da interpretare,
peraltro), si era riportata “l’idea…di far valere il tetto del 3% di deficit per l’insieme della zona euro, affinché diventi meno importante il suo rispetto da parte dei singoli Stati. Perché – è il ragionamento dello Spiegel – quelli in pareggio, o in surplus, compenserebbero i deficit elevati.
Far rispettare la regola del 3% solo all’intera Eurozona, scrive lo
Spiegel, “avrebbe dei vantaggi per i Governi che non vogliono
risparmiare”, cioè che non vogliono tagliare la spesa pubblica. Perché
“più alcuni Paesi portano i bilanci in pareggio o accumulano surplus,
più altri possono avere deficit alti”, visto che il 3% non va superato
nell’insieme.”
6. Rinviamo al post linkato per gli aspetti relativi a come questo
escamotage potesse evitare alla Germania qualsiasi aggiustamento
reflattivo e, in pratica, re-indurre in indebitamento da (modesta)
espansione i paesi “debitori” dell’eurozona. Da calcolare, tra l’altro,
che dato il suo peso ponderale nell’economia dell’eurozona, l’Italia
sarebbe risultata tra i paesi avvantaggiati, poiché i suoi attuali
percorsi verso l’obiettivo di pareggio strutturale di bilancio l’hanno
portata, per prima e con un vantaggio di un numero considerevole di
anni, a rispettare il 3% e anche a registrare un dato inferiore. A
differenza di Francia e Spagna. Ma il vero nodo della questione è sempre identico a quello che
ora, senza mezzi termini, sollevano i 154 economisti tedeschi: la
Germania non ha alcuna intenzione di mutare le proprie politiche di
competizione mercantilista all’interno dell’eurozona, e dell’intera Ue, e
non ha alcuna intenzione di condurre politiche fiscali espansive e
reflattive. Eppure, secondo la stessa Commissione, persino in applicazione del
fiscal compact, i cui parametri rispetto infatti con “eccesso” (di
zelo), la Germania dovrebbe intraprendere un aggiustamento fiscale che
la porti a un deficit di bilancio aggiuntivo di 0,8 punti di PIL (v. qui
tabella al p.2)
Tabella raffronto paesi
7. La sintesi che se ne poteva ricavare – e che viene confermata
dall’uscita dei 154 economisti- è che le riforme di Macron, per quanto
riguarda l’interesse tedesco (che gli stessi privilegiano sopra ogni
altra considerazione), sono fuori questione; cioè sono esse stesse a
porre in pericolo l’eurozona, non certamente gli sviluppi della
situazione politica italiana. Beninteso: il presunto solidarismo dell’impostazione macroniana non
ha nulla a che vedere con “l’unione di trasferimenti” che dovrebbe
completare la moneta unica già nelle pallide intenzioni del rapporto
Werner; si tratta, come abbiamo più volte visto, di un mero meccanismo
assicurativo (qui, p.4), in cui non solo si paga un premio esoso e
fiscalmente insopportabile, ma in cui le prestazioni
dell’€uropa-assicuratrice sono soggette alla pesante “franchigia” di
condizionalità che segnerebbero il dominio politico del paese, o dei
paesi, che avessero il controllo delle rafforzate istituzioni
dell’eurozona. Cioè cessione integrale e definitiva di sovranità in
cambio di cieca obbedienza agli interessi stimati dai paesi dominanti.
8. Solo che, poiché alla Germania le cose vanno bene così come stanno, nella sostanziale impunità del suo supersurplus estero di 8,5 punti di PIL
e con un saldo di bilancio pubblico ormai in attivo, anche questa
prospettiva di condivisione del potere, sostanzialmente coi francesi,
non li alletta e la vedono come un’intrusione intollerabile. Al punto da lasciar appunto intendere che potrebbero lasciare
l’eurozona, accettando che gli altri mantengano l’euro con regole
fiscali meno asfissianti in modo da poter contare ancora sulla domanda
dei paesi dell’eurozona, pur reimpossessandosi del proprio marco
alquanto rivalutato (v. qui, pp.6-8).
9. Ed allora, oggi più che mai il richiamo alla insostituibilità della moneta unica e
a far coincidere (paradossalmente dal punto di vista storico ed
economico) un qualche “interesse nazionale” con il suo mantenimento ad
ogni costo (qui, p.4), rischia di diventare una valutazione imprudente e
viziata da una rigidità di linea politico-economica priva di un
realistico “timing”.
Se proprio si volesse considerare razionalmente la situazione
politica che si sta profilando nell’eurozona, senza farsi obnubilare
dai condizionamenti autodenigratori e dai sensi di colpa (infondati), le
nostre istituzioni dovrebbero essere molto, ma molto, più attente
all’effettivo intreccio e contrasto di interessi che (come previsto)
avrebbe indotto la moneta unica; una situazione da considerare
senza provincialismo ed in cui non c’è solo in gioco la nostra
credibilità in forma di pacifismo scollato dalla coscienza informata
delle scelte che si subiscono.
E, sempre prudentemente e saggiamente, sarebbe da considerare l’idea di un Piano B. La Germania il conto non lo vuole pagare: lo si sappia perché è un suo comportamento abituale.
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