da ComeDonChisciotte
DI SANDRO MOISO
Oggi, 3 maggio 2018, mentre i media nazionali rispettosi soltanto dei vuoti rituali della politica guardano a ciò che avverrà nella direzione del PD, cade il venticinquesimo giorno dell’occupazione militare della ZAD di Notre Dame des Landes da parte dei mercenari in divisa da gendarmi dello Stato francese.
2500 agenti che da venticinque giorni, con ogni mezzo non necessario se non a ferire gravemente i corpi o a violentare i territori percorsi da autoblindo, ruspe e gru e a distruggere campi coltivati, boschi e abitazioni, cercano di cancellare dalla faccia della Francia, dell’Europa e della Terra ogni traccia di una delle nuove forme di civiltà e comunità umana che si è andata delineando negli ultimi decenni sui territori che la società Da Vinci e gli interessi del capitale avrebbero voluto trasformare in un secondo ed inutile aeroporto della città di Nantes.
Un’azione fino ad ora respinta valorosamente dagli occupanti e dalle migliaia di uomini e donne di ogni età e provenienza sociale che si sono recati là al solo fine di manifestare la loro solidarietà con quell’esperimento comunitario e di respingere ancora una volta, come nel 2012 con l’operazione César voluta all’epoca da Hollande allora fallita, le mire del capitale finanziario sul bocage e della repressione poliziesca nei confronti di un esperimento di società senza Stato, senza denaro, senza polizia, senza rappresentanza politica se non diretta dei suoi abitanti.
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Non a caso la ZAD è stata da tempo definita come zona di “non Stato” dalle stesse autorità francesi e non a caso proprio il non marché, l’area in cui era possibile prelevare o scambiare i prodotti dell’agricoltura locale senza ricorrere al denaro, è stata la prima area ad essere distrutta, ricostruita in pochi giorni e nuovamente rasa al suolo dalle ruspe delle forze del dis/ordine. Rendendo così evidente che non si tratta di riportare l’ordine repubblicano in un territorio di quasi 1700 ettari sfuggito al suo controllo, ma di ristabilire le norme della civile società del mercato, del profitto e dello sfruttamento capitalistico dell’uomo sull’uomo e dell’ambiente.
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Parlando a Strasburgo davanti al parlamento europeo, il 17 aprile di quest’anno, Emmanuel Macron ha sottolineato il rischio che in Europa possa esplodere una guerra civile. Per una volta il giovane e rampante rappresentante della grandeur francese non ha mentito. Non ha mentito sapendo benissimo di che cosa stava parlando, essendo lui stesso uno dei promotori della stessa. Una guerra che, ormai da anni, il capitale finanziario sta conducendo contro i cittadini d’Europa, soprattutto là dove quegli stessi cittadini non si lasciano ingabbiare dalle logiche nazionaliste, populiste e razziste (che lo stesso capitale finanziario promuove facendo allo stesso tempo finta di combatterle).
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In ogni angolo del continente europeo e del mondo i margini della trattativa si sono ridotti ad una mera logica di scontro e di rapporti di forza, anche e forse soprattutto militari. Vale per la concorrenza tra potenze tardo-imperialiste e neo-imperialiste, ma vale soprattutto per il conflitto di classe all’interno degli Stati. E non vi è più parlamento nazionale che possa effettivamente risolvere le contraddizioni interne, siano esse economiche o sociali, senza far ricorso all’uso dell’intimidazione e della violenza.
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Come negli anni della guerra civile spagnola oppure, ancor prima, delle guerre di indipendenza europee dell’Ottocento, la solidarietà si manifesta attraverso la partecipazione o il sostegno diretto alle lotte, dal Rojava alla Val di Susa, dalla Zad alla Palestina.
Una nuova generazione e un nuovo paradigma politico di lotta e resistenza si stanno imponendo, proprio a causa di quell’imposizione violenta dell’ordine e della volontà di dominio che il capitalismo internazionale sembra intendere come unica forma di governo sovranzionale.
Una nuova generazione e un nuovo paradigma politico di lotta e resistenza si stanno imponendo, proprio a causa di quell’imposizione violenta dell’ordine e della volontà di dominio che il capitalismo internazionale sembra intendere come unica forma di governo sovranzionale.
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Anime belle e pie affermarono allora che occorreva lottare contro quei mostri per tornare ai rapporti democratico-parlamentari precedenti. Ma se è vero che non vi è direzione teleologica della Storia, ovvero che la Storia non ha di per se stessa un fine, è anche vero che difficilmente lo sviluppo sociale e politico potrà tornare sui suoi passi. Con buona pace delle teorie sull’eterno ritorno e sulla circolarità della Storia stessa.
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Basti rinviare ancora una volta alla mancata epurazione e all’amnistia concessa dal guardasigilli Togliatti, più attento a reprimere i sovversivi alla sua sinistra che a punire i rappresentanti degli apparati e del regime e che permise a un numero non piccolo di fascisti di reintegrarsi non solo nella DC, ma anche nel PCI, di cui in alcuni casi sarebbero diventati esponenti importanti.
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Da qui le fittizie contese sul lavoro e sulle pensioni, utili solo a raccattare voti tra ciò che resta della classe operaia e della classe media impoverita. Da qui un terzomondismo povero di idee, oggi ancor più di quello di ieri, che invece di guardare avanti, verso una società senza stato, sfruttamento, proprietà privata dei mezzi di produzione, salari e consumo di merci, guarda indietro, a rapporti più “equi” nello sfruttamento capitalistico e nell’appropriazione, nazionale o privata non importa, delle risorse e del loro prodotto.
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Chi oggi vuole cambiare l’esistente lotta sulle barricate della ZAD, in Val di Susa, nelle strade di Parigi del primo maggio o nel Rojava. Luoghi, insieme a molti altri, che sanno accogliere chi lotta, chi fugge e chi migra. Luoghi pericolosi perché non rappresentano il locale e l’immediato, ma il mondo di domani.
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Fornendo un magnifico esempio al nuovo maggio di lotte che, a cinquant’anni di distanza dal 1968, sta tornando a divampare in Francia tra i
lavoratori dei trasporti, gli studenti, i giovani senza lavoro e che ha già visto un sempre giovane Karl Marx tornare a prendere il posto che gli spetta nei cortei di testa.
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Avvertenza
Con il presente articolo si inaugura una nuova rubrica di Carmilla, che i lettori troveranno in basso nella colonna di sinistra, dichiaratamente ispirata alla definizione di comunismo data dal giovane Marx: Il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente.
Al suo interno troveranno spazio tutti quegli interventi, redazionali e non, che vorranno occuparsi dello sviluppo dei movimenti di lotta contro i differenti aspetti della società che ci circonda e indirizzati ad un suo sostanziale cambiamento.
Resta naturalmente evidente che la responsabilità per il contenuto degli stessi rimane esclusivamente a carico degli autori e non della Redazione di Carmilla nel suo insieme.
Con il presente articolo si inaugura una nuova rubrica di Carmilla, che i lettori troveranno in basso nella colonna di sinistra, dichiaratamente ispirata alla definizione di comunismo data dal giovane Marx: Il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente.
Al suo interno troveranno spazio tutti quegli interventi, redazionali e non, che vorranno occuparsi dello sviluppo dei movimenti di lotta contro i differenti aspetti della società che ci circonda e indirizzati ad un suo sostanziale cambiamento.
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Sandro Moiso
Fonte: www.carmillaonline.com
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